Geometrie del disordine  2021
Quanta fantasia sulle strade. Ordinate geometrie colorate, fosforescenti, indispensabili e rassicuranti ci guidano in ogni angolo della città. Attraversare camminando sicuri su grandi strisce bianche o parcheggiare l’auto tra candide linee ortogonali. L’idillio durerà poco. Questo mostro sacro della nostra cultura intriso di cartesiana fiducia dovrà affrontare un altro inalienabile mostro: il disordine. Ho limitato lo sguardo verso un aspetto pubblico e visibile della città, luogo in cui è la quotidianità di certi comportamenti a causare tensioni estenuanti. Con l’auto al parcheggio infatti, in alcuni casi particolari, l’apparente banalità dei pochi centimetri di superamento del nostro geometrico margine bianco, sembrano la misura di un segnale diverso dalla semplice sbadataggine. Ma il disordine è sempre più grottesco dell’ordine? E la geometria è solo uno strumento? Purtroppo la fotografia non dà risposte. Ci vorrebbero le certezze dell’unica che invece non ha dubbi sul fatto che questi due antagonisti siano veri mostri: la tanto bistrattata casalinga perfetta, ossessionata com’è da entrambi. Il mio approccio rimane sospeso, in superficie, senza via d’uscita. Ed è il motivo per cui queste auto, che sembrano abbandonate da automobilisti alieni, le ho fotografate in tutta la loro normalità.
Antonio Loi















Una quotidianità grottesca
Anticipati concettualmente dalla serie “Autorivelazione” degli anni Settanta, gli scatti selezionati per la mostra Geometrie del Disordine colgono il perenne girovagare di Antonio Loi tra i meandri della sua incontrastata musa ispiratrice che sottopone periodicamente a ricognizione: la città di Cagliari. Scatti dove abbandona il suo rigoroso bianco e nero per concedere al colore la scansione spaziale ed evidenziare come geometria e disordine siano caratteri imprescindibili del territorio urbano ma quanto, al contempo, ci dirottino in un’atmosfera paradossale e alienante. “Negli anni mi sono reso conto di essere un camminatore folle, che ogni tanto fotografa. Potrei smettere di fotografare, ma non di camminare, e quando cammino mi ritrovo, quasi involontariamente, a inquadrare le cose. Lo sguardo ossessivo di Antonio Loi è accostabile al modus operandi che Giorgio Morandi applica alle sue nature morte, tra indagine reiterata per giungere all’essenza delle cose e un’inclinazione all’alternanza tra sospensione temporale e contemplazione. Sguardo che penetra nella realtà con l’obiettivo di instillare dubbi esistenziali senza mai fornire risposte. L’approccio è quello di puntare a una continua tensione e a un’espressività incisiva attraverso deformazioni, mediante riprese ravvicinate col grandangolo, che conferiscono ulteriore potenza visiva alle immagini. Tra pieni e vuoti, tra geometria e caos, gli spazi dilatati del manto stradale, spesso soggetto a grave usura, sono attraversati dalle ben definite geometrie dei segnali urbani ai quali si sovrappongono i mezzi di trasporto. La segnaletica, diventata inutile, si riduce a immagine confusa e ingannevole e la città a territorio di una quotidianità grottesca dalla quale non si può sfuggire. Palcoscenico straniante di una realtà urbana che si colloca al di là di qualunque compiacimento estetico con una notevole dose di ironia e sarcasmo. Non a caso Emil Cioran scrive: “Come siamo giunti a questo punto? Per quale via, dopo secoli rassicuranti, ci troviamo alle soglie di una realtà che soltanto il sarcasmo rende tollerabile?”.
Roberta Vanali

Perchè la fotografia ha bisogno di molta ironia.
Da appassionato collezionista di luoghi comuni sulla fotografia, vi dico l’ultima frase che ho sentito: “La realtà non è piatta come una fotografia”. Caspita! A dirla è uno scrittore di chiara fama mentre parla di un suo romanzo in modo piuttosto interessante e convincente, quando d’improvviso, la pronuncia con un piglio deciso. La frasaccia ad effetto, però, contiene ormai almeno un secolo di stanche grossolanità su questo medium. E ancora oggi, quasi ingenuamente, non smetto di meravigliarmi nel chiedermi perché la fotografia venga “usata”, anche da intellettuali raffinati, in modo tanto disinvolto, senza porsi alcun problema. Quasi che la sua ormai estrema facilità d’uso ne ottundesse tutte le altre possibilità. Al contrario vi propongo una scrittrice molto lucida:

“Per Cartier-Bresson fare fotografie significa “trovare la struttura del mondo – godere della voluttà della forma”, rivelare che “in tutto questo caos c’è l’ordine”. (Forse è impossibile parlare della perfezione del mondo senza apparire untuosi). L’opinione di Stieglitz, Strand e Weston – secondo la quale le fotografie dovrebbero essere anzitutto belle (vale a dire perfettamente composte) – sembra oggi poco persuasiva, troppo insensibile alla verità del disordine: come sembra quasi pernicioso l’ottimismo sulla scienza e la tecnologia che sta alla base della concezione fotografica del Bauhaus.” *
Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, 1978

*Se consideriamo la notevole quantità di luoghi comuni sulla fotografia accumulati in meno di due secoli, penso sia il pragmatismo di Susan Sontag, nutrito di sottile ironia e sarcasmo, a rendere le sue parole ancora attuali rispetto a certe pretestuose teorie fotografiche di alcuni scrittori suoi contemporanei. E questa asciutta ironia mi ha spinto ad inserire anche la sua irresistibile frase sul Bauhaus, l’istituto d’arte e scienza crogiolo di raffinate pedanterie coscienziose.
Antonio Loi